10 aprile 2024 - 06:46

L’Europa perde influenza in Africa dopo gli ultimi colpi di stato. Russia, Cina e Turchia si prendono il continente

di Domenico Affinito e Milena Gabanelli

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Otto colpi di Stato solo negli ultimi tre anni: Sudan, Ciad, Guinea, Gabon, Niger, due in Mali (dopo 20 anni di assoluta pace) e due in Burkina Faso. Il continente africano, che aveva registrato una flessione di casi nei primi anni del terzo millennio, rimane in cima alle classifiche storiche: dal 1950 ad oggi ha subito 220 putsch, di cui 109 riusciti. In pratica 45 dei 54 Paesi hanno registrato almeno un tentativo di presa del potere in maniera violenta (Jonathan Powell, dell’Università della Florida, e Clayton Thyne, dell’Università del Kentucky).
Le cause

Tra le principali micce povertà e fragilità democratica: 12 dei 15 Paesi africani nei primi 20 posti della classifica mondiale degli Stati Fragili 2022 (stilata dal Fondo per la Pace) sono stati, almeno una volta nella loro storia, teatro di un colpo di stato riuscito, a differenza dei paesi con minore povertà e istituzioni più forti (come Sudafrica e Botswana). Nel Sahel, dove si sono registrati tutti gli ultimi eventi, ci sono 6 Paesi fra i più poveri del continente: Gabon, Niger, Burkina Faso, Guinea, Ciad e Mali erano tutti sotto i 22 miliardi di dollari di Pil nel 2022 (qui i dati della Banca Mondiale). L’Italia, giusto per avere un metro di paragone, ha un pil da 2 mila miliardi. Il Sudan (52 miliardi) è quello con più colpi di stato tentati nella sua storia: 18. Aumentano i casi e il grado di successo: dal 36,4% di tentativi riusciti del periodo 2000/2009 si è passati al 64,3% del 2020/2023. Secondo i ricercatori Powell e Thyne nei prossimi anni il numero rimarrà alto perché le cause alla base dei colpi di stato non solo non sono state rimosse, ma stanno peggiorando. E questo è un problema soprattutto per l’Europa. Vediamo perché.

Europa sempre più lontana

Sette degli ultimi otto colpi di stato hanno deposto presidenti che avevano stretti rapporti con l’Europa, con ricadute economiche e politiche. Il Mali ha miniere di litio ed è il terzo produttore di oro dell’Africa. Il Niger è ricco di uranio, oro e petrolio, ed è un crocevia di traffici di ogni tipo da quelli della droga a quelli di essere umani, e da Agadez partono le due principali rotte verso Algeria e Libia con destinazione finale l’Europa. Il Mali è una base dello Stato Islamico e Jamaat Nusrat al Islam wal Muslimeen (Jnim), presente anche in Burkina Faso; mentre in Niger c’è lo Stato Islamico West Africa. Sono tre dei primi sei più pericolosi gruppi terroristici secondo il Global Terrorism Index 2023. L’ultimo a prendere il potere in modo violento, a fine luglio 2023, è stato il generale Tchiani in Niger. Preoccupata del moltiplicarsi dei casi, la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas) ha reagito col blocco di aiuti, finanziamenti, asset bancari, import/export, sorvoli aerei e frontiere al Niger, Mali e Burkina Faso. La reazione è stata quella di accusare l’Ecowas di agire «sotto l’influenza di potenze straniere». Poi, a inizio agosto, il Niger ha revocato gli accordi di cooperazione militare con Parigi e a ottobre l’Eliseo ha annunciato il ritiro delle proprie truppe, già smantellate nel 2022 da Mali e Burkina Faso. A fine ottobre sono arrivate le misure della Ue: congelamento di beni, fondi e divieto di viaggio per le persone. Poche settimane dopo, a inizio dicembre 2023, il generale Tchiani ha chiuso le due missioni dell’Unione Europea nel Paese: una di sostegno alle forze di sicurezza interne e alle autorità nigerine e l’altra, varata a febbraio 2023, di sostegno nella lotta al terrorismo. Il 18 febbraio 2024 Tchiani ha revocato anche l’accordo militare con gli Stati Uniti che dovranno ritirare i 1.000 militari di stanza nella base di Agadez, completata tre anni fa e costata 110 milioni di dollari, e con funzione di controllo antiterrorismo. Fuori la Francia dai Paesi del Sahel, dentro la Russia.

Mosca punta sulle armi, ma non solo

Mosca, negli ultimi 5 anni si è imposta come principale venditore di armi nell’Africa Sub-sahariana – con una quota di mercato che ha raggiunto il 26% – e ha stretto accordi militari con 27 Paesi africani. A Burkina Faso e Mali fornisce armamenti per combattere le milizie jihadiste e i ribelli tuareg, e con il Niger ha avviato a gennaio un programma di cooperazione militare per stabilizzare la regione. La Russia si contende con Cina e Iran lo sfruttamento delle riserve nigerine di uranio, le quinte più grandi del pianeta, fino a ieri venduto a prezzi alla francese Orano, cacciata dai golpisti. Dalla Repubblica Centrafricana ha ricevuto l’offerta, a febbraio, di costruire una base militare per 10.000 soldati a Beringo, a 80 chilometri dalla capitale Bangui. La Russia ha anche stretto intese col Ciad, ultima nazione del Sahel a ospitare una presenza militare francese, e secondo il giornale russo Kommersant, starebbe pianificando la creazione dell’Afrikansky Korpus, una nuova forza che assorbirebbe anche la Wagner, fino ad oggi braccio armato per le operazioni sotto copertura. La compagnia militare privata russa ha partecipato al colpo di stato in Mali in cambio di 10 milioni di dollari al mese in oro; in Sudan la Wagner sostiene il regime golpista e si occupa dell’estrazione dell’oro con una sua controllata in joint venture con una società sudanese; in Repubblica Centrafricana sostiene il governo dal 2018 e come pagamento ha ottenuto in concessione lo sfruttamento della miniera di oro di Ndassima; alla Libia del generale Haftar fornisce piloti militari, truppe di terra, forze di reazione rapida e personale per la manutenzione dei mezzi militari. Contropartita: influenza politica e affari nel settore energetico e nell’edilizia.

Aumenta la presenza della Turchia

Ankara ha avviato una politica di apertura all’Africa fin dal 1998, ma è con l’arrivo al potere di Erdogan che le relazioni decollano. Se nel 2000 gli scambi commerciali erano di 5,4 miliardi di dollari, nel 2021 sono saliti a 35,4 miliardi. Negli ultimi 20 anni sono state aperte 19 nuove ambasciate, e quella in Somalia è la più grande rappresentanza diplomatica turca del mondo. Il governo Erdogan ha creato un’Agenzia per la cooperazione (Tika) e un’Autorità per la gestione delle crisi (Afad), attraverso le quali passano gli aiuti pubblici turchi verso le comunità musulmane presenti in 37 paesi africani: programmi di lotta alla fame, riqualificazione delle infrastrutture sanitarie e borse di studio per gli studenti islamici. L’elemento religioso è una delle linee di penetrazione: ricostruite o rimesse a nuovo moschee e scuole coraniche (soprattutto nell’Africa occidentale) la cui gestione è stata affidata alla fondazione Maarif, politicamente vicina a Erdogan. La Turchia si è assicurata in Senegal la gestione dell’aeroporto internazionale Blaise-Diagne per 25 anni; in Somalia, nel 2017, è stata inaugurata la più grande base militare turca all’estero (Turksom). In Libia ha inviato 2.500 mercenari siriani in soccorso al governo di Al Dabaiba, che lo ha ringraziato includendo la Turchia nel progetto di esplorazione delle acque territoriali. Ma anche la gestione, in Tripolitania, di cinque basi di addestramento, il porto di Misurata e la base aerea al Watiya.

La Cina avanza silenziosa

Dal 2000 al 2020 la Cina ha costruito in Africa 100.000 km di autostrade, 1.000 ponti, 100 porti e 13.000 km di ferrovie. Servono per trasportare fuori dal continente le materie prime necessarie al suo galoppante sviluppo industriale: greggio, rame, cobalto, litio, oro e ferro. Solo dal 2016 al 2020 gli investimenti in progetti infrastrutturali hanno raggiunto quasi i 200 miliardi di dollari: oltre 80 centrali elettriche, installato metà delle reti mobili e dei cavi in fibra per la connessione internet e il servizio di cloud pubblico in Sudafrica. Negli ultimi anni il 31,4% di tutti i progetti infrastrutturali del continente sono stati realizzati da società cinesi. Il porto Doraleh di Giubiti è stato cofinanziato dalla China’s Merchants Holding Company. Cinese è la ferrovia elettrica Etiopia-Gibuti, così come il porto in costruzione a Massaua in Eritrea e quello di Haidab in Sudan. In Niger la China Petroleum Pipeline Engineering Co Ltd ha iniziato la costruzione di 1950 km di oleodotto verso il Benin.

Da almeno 20 anni Pechino è il più grande partner commerciale dell’Africa: ha istituito comitati misti sul commercio e la cooperazione economica con 51 dei 54 Paesi africani e con 21 ha commissioni bilaterali di consultazione diplomatica e dialogo strategico. Oggi oltre il 50% di prodotti meccanici, elettrici e ad alta tecnologia che l’Africa importa sono cinesi e, in tema di trasformazione digitale, ventinove Paesi hanno selezionato soluzioni di servizi di smart government forniti da aziende cinesi. La Cina parallelamente ha aumentato le sue importazioni di risorse naturali. Pechino ha di fatto il monopolio dell’importazione di cobalto dal Congo, fondamentale per le batterie elettriche. La China National Nuclear Corporation ha stretto accordi per sfruttare le riserve di uranio in Niger. La China National Petroleum Company controlla la produzione di greggio in Ciad, mentre la China’s Ganfeng Lithium Co ha acquisito metà delle quote della miniera Goulamina in Mali. Pechino espande anche la sua influenza culturale: in Africa ha fondato 61 Istituti Confucio, finanzia dipartimenti di lingua o corsi di laurea in lingua cinese in più di 30 università. Dal 2004 ha inviato un totale di 5.500 insegnanti di lingua cinese e volontari in 48 nazioni africane. Alla fine l’influenza cinese si estende sulla quasi totalità dei Paesi africani. E questo ha un peso quando si prendono le decisioni nel palazzo di vetro delle Nazioni Unite.
La bomba demografica

Nonostante il continente sia ricco di materie prime indispensabili a tutte le potenze mondiali, metà della sua popolazione vive in estrema povertà. La crescita demografica è costante: nel 1950 gli africani erano 221 milioni, oggi 1,4 miliardi con un’età media di 19 anni, meno della metà di quella europea (44,5 anni). Nel 2050 saranno 2,5 miliardi: il 25% della popolazione mondiale, mentre l’Europa ne ospiterà solo il 5% (fonte Dipartimento Affari economici e sociali delle Nazioni Unite). Due fattori che uniti alla instabilità politica, alle guerre, e desertificazione creano un mix esplosivo alle porte dell’Europa.

«Quello di cui il continente africano ha bisogno oggi – ha dichiarato Maussa Faki, Presidente della Commissione dell’Unione Africana – è di una strategia a sostegno della governabilità: serve consolidare governi, sicurezza, giustizia, sanità e infrastrutture». Bruxelles lo sa, e nel 2022, al sesto summit Ue-Africa, ha annunciato un pacchetto di aiuti di 150 miliardi di euro in sette anni per rinforzare la sanità pubblica, accelerare la transizione ecologica, la trasformazione digitale, la creazione di nuovi posti di lavoro e la formazione (qui i progetti avviati nel 2023). Ma la Ue è formata da 27 Paesi e ogni governo nazionale pensa soprattutto a sé. Nel concreto sborsiamo un po’ di milioni ai dittatori di turno per il controllo delle frontiere. Accordi-ricatto e di breve periodo, giusto il tempo per blindare le campagne elettorali.
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