Le illusioni della guerra

Putin è davvero al sicuro? Gli oligarchi «predatori di guerra» e il boom russo (dai piedi d'argilla)

di Federico Fubini

Rieletto con la percentuale assiro-babilonese dell’88%, Vladimir Putin ha davanti a sé sei anni al Cremlino che in teoria gli sorridono. Non solo l’esercito, a piccoli passi, avanza in Ucraina. Anche l’economia sotto sanzioni occidentali, che avrebbe potuto essere il tallone d’Achille del presidente al suo quinto mandato, in questo momento dà sicuramente fiducia. Nel quarto trimestre del 2023 il prodotto interno lordo era del 5,1% più alto di un anno prima. La disoccupazione viaggia al 2,9%. Perfino l’inflazione in Russia, il vero punto debole di un' economia di guerra sostenuta a pieni giri dal complesso militare-industriale, sembra andare nella direzione giusta (per Putin): in febbraio era in rallentamento e sembra stabilizzarsi attorno al 7,5%. Dunque in apparenza tutto bene per il dittatore, che ha l’aria di poter sostenere ancora a lungo la guerra in Ucraina. Del resto in tempi non sospetti questa newsletter notò che la produzione industriale russa, contro le attese di molti, stava riaccelerando. Ma fino a che punto può continuare?

La Russia e le sanzioni occidentali

Non c’è dubbio che la Russia abbia saputo adattarsi alle sanzioni meglio di quanto molti avessero previsto in Occidente. Chiedere, per credere, ai neo-oligarchi che proprio grazie alle stesse misure degli europei e degli americani si stanno arricchendo prodigiosamente. Alexander Varshavsky e Kamo Avagumyan della Avilon – nel settore auto – hanno comprato con l’equivalente di 124 milioni di euro, a un dodicesimo del prezzo di mercato, un impianto della Volkswagen che genera quattro miliardi di euro l’anno (e hanno comprato l’impianto della Hyundai per la bellezza di 108 dollari). Un certo Andrei Olkhovsky della città siberiana di Omsk si è comprato con 74 milioni di euro una fabbrica della Mercedes-Benz, più tutte le attività commerciali e assicurative in grado di fatturare fra tre e quattro miliardi l’anno. Due signori di nome Arsen Kanokov e Alexander Govor hanno rastrellato letteralmente gratis 850 ristoranti di McDonald’s e per una miseria 130 caffetterie di Starbucks. 

Il sostegno di Pechino

L’elenco – presentato dai colleghi sempre eccellenti di The Bell – potrebbe continuare, con tanti altri oligarchi passati subito alla divisione delle spoglie lasciate dagli occidentali. Ma, al netto dei profittatori di regime, alla tenuta dell’economia russa nel 2023 e in questo scorcio di 2024 hanno contribuito principalmente tre fattori. Di questi, uno sicuramente non verrà meno e altri due potrebbero attenuarsi solo in parte. Il primo, naturalmente, è il sostegno di Pechino: il commercio fra le due grandi potenze autocratiche è letteralmente esploso da 147 miliardi di dollari nel 2021 a 240 miliardi nel 2023. La Cina assicura alla Russia praticamente tutte le tecnologie che da Occidente non arrivano più o di meno – dagli smartphone, ai semiconduttori, alle auto – e poco importa a Putin in questo momento se la qualità non è sempre comparabile.

I ricavi da petrolio

Il secondo fattore di forza di Putin sono i ricavi da petrolio: l’imposizione da parte del G7 di un “tetto” a 60 dollari a barile sulla vendita di greggio russo a Paesi terzi, semplicemente, non sta funzionando. La Russia continua a esportare fra cinque e sei miliardi di euro in valore di energie fossili alla settimana, di cui fra tre e quattro miliardi di petrolio. L’analisi del Centre for Research on Energy and Clean Air di Helsinki ne mostra la ragione principale: circa due terzi del petrolio russo viene trasportato o assicurato da compagnie europee o dei Paesi del G7, che a loro volta non sono soggette a sanzioni se poi quel greggio viene venduto a cinesi, indiani o malesi violando il limite di prezzo di 60 dollari a barile. In più, l’Europa non sta intervenendo per impedire che armatori europei vendano petroliere a misteriosi imprenditori russi o ai loro intermediari. 

Nel G7 non si sta facendo abbastanza

Tutto questo segnala che né l’Europa, né gli Stati Uniti intendono correre il rischio di una riduzione dell’offerta di greggio russo sui mercati mondiali. Se accadesse, allora i prezzi della materia prima schizzerebbero verso l’alto nel mondo. Per tutti. Joe Biden rischierebbe di pagare caro nelle urne a novembre qualunque aumento di listino del gallone di benzina e neanche gli elettori europei sarebbero contenti. Dunque nel G7 non si sta facendo abbastanza per fermare le entrate di Putin da fonti fossili: poco importa che sia grazie ad esse che il bilancio di Mosca sostiene nel 2024 una spesa militare pari all’8% del Pil e – assurdamente – al 38% di tutta la spesa pubblica della Federazione russa (vedi grafico sopra). Su questo fronte qualcosa forse i governi occidentali cercheranno di fare nei prossimi mesi ma, temo, troppo poco. 

L’aggiramento sistematico delle sanzioni

Il terzo problema riguarda l'aggiramento sistematico delle sanzioni tramite le triangolazioni di merci dall’Europa, attraverso la Turchia o i Paesi d’Asia centrale, fino alla Russia. Il fenomeno riguarda anche l’Italia. Ed è noto: alcune repubbliche caucasiche hanno visto esplodere del 430% le loro esportazioni verso la Russia, anche di tecnologie che peraltro non producono. Su questo problema, tuttavia, l’Unione europea si sta dolcemente svegliando: le bozze del dodicesimo pacchetto di sanzioni quest’inverno prendevano di mira anche società kazake create apposta per le triangolazioni, benché poi quelle misure siano misteriosamente sparite nella versione finale. Il tredicesimo pacchetto (approvato di recente) fa un minuscolo passo in più e sanziona solo alcune società kazake peraltro già messe fuori gioco dagli Stati Uniti. Lentamente, padermicamente, su questo l’Europa si sta muovendo e continuerà a farlo. 

L’economia russa resta fragile

Putin dunque, al suo quinto mandato, può dormire fra due guanciali? Non è detto. Dietro i numeri e i proclami, l’economia russa resta fragile e profondamente malsana. La spesa militare e per l’apparato repressivo, grottescamente costosi, genera decine di miliardi di euro di deficit ogni anno e non potrà essere sostenuta a lungo agli attuali livelli. Con il congelamento in Europa dei fondi della banca centrale di Mosca, alla Russia restano disponibili riserve liquide per appena 50 miliardi di euro circa. Uno o due anni di guerra intensamente combattuta in Ucraina basterebbero ad azzerare quelle riserve. A quel punto Putin, per continuare l’aggressione dell’Ucraina, sarebbe costretto ad alzare le tasse sulle imprese, sui ceti medi, oppure a tagliare ulteriormente la spesa sociale di un Paese già impoverito. L’impopolarità del regime, già evidente in queste settimane, diventerebbe solo più diffusa e acuta. E non c’è niente di più difficile che condurre un’atroce guerra di aggressione sempre più cara e invisa alla vostra opinione pubblica, così come anche alle élite sottoposte a nuove tasse. Non importa se ormai siete diventato indiscutibile, in apparenza, come un sovrano assiro-babilonese.

Questo articolo in origine è stato pubblicato sulla newsletter del Corriere della Sera «Whatever it Takes» a cura di Federico Fubini, clicca qui per iscriverti.

Iscriviti alle newsletter di L'Economia

Whatever it Takes di Federico Fubini
Le sfide per l’economia e i mercati in un mondo instabile

Europe Matters di Francesca Basso e Viviana Mazza
L’Europa, gli Stati Uniti e l’Italia che contano, con le innovazioni e le decisioni importanti, ma anche le piccole storie di rilievo

One More Thing di Massimo Sideri
Dal mondo della scienza e dell’innovazione tecnologica le notizie che ci cambiano la vita (più di quanto crediamo)

E non dimenticare le newsletter
L'Economia Opinioni e L'Economia Ore 18

19 marzo 2024 ( modifica il 19 marzo 2024 | 12:53)