Petraeus, ex capo della Cia: «Putin non si fermerà. La nostra sicurezza comincia sul confine tra Russia e Ucraina»

di Federico Rampini

Intervista a Petraeus: «Il grande rischio con Trump è l’imprevedibilità. Tra la sua amministrazione e quella di Biden ho visto più continuità che cambiamenti, l’approccio alla Cina è stato molto simile. La differenza potrebbe riguardare il rapporto con Nato e Russia»

Petraeus, ex capo della Cia: «Putin non si fermerà. La nostra sicurezza comincia sul confine tra Russia e Ucraina»

L’ex direttore della Cia David Petraeus (Getty)

«Un Trump bis avrà più continuità che differenze con la politica estera di Biden. Ma l’imprevedibilità è un problema. Putin non si limiterà all’invasione dell’Ucraina. E l’America dovrà sempre rimanere in Medio Oriente». Così parla un osservatore autorevole e super partes, il generale americano David Petraeus che guidò gli interventi in Iraq e Afghanistan, poi fu direttore della Cia. L’ho intervistato per il forum di geopolitica Open Dialogues for the Future che si tiene a Udine il 7 e 8 marzo. Parti di questa intervista andranno in onda nella seconda puntata della mia trasmissione «Inchieste da fermo» su La7 , quella dedicata all’America di Trump. Anticipo alcuni estratti delle sue risposte.

Cosa rischia l’Ucraina, e l’Europa?
«Vladimir Putin non si fermerà in Ucraina. La Moldavia, la Lituania potrebbero essere le prossime. Le sue ambizioni si estendono ben oltre l’Ucraina. Vi ricordo che quando a Putin fu chiesto qual era stato il peggior evento del XX secolo, un secolo che ha avuto due guerre mondiali, la Grande Depressione e tante altre disgrazie, ha detto che il peggio è stato la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Sta cercando di riassemblare i pezzi dell’Urss o del Grande Impero russo, coi mezzi più disparati. Non dobbiamo illuderci che si fermerà. Questa è la ragione per cui tutti dobbiamo sostenere l’Ucraina, perché la sicurezza della Nato inizia al confine russo-ucraino, non ai confini dei Paesi Nato. Tanti sono i fattori che determineranno il corso della guerra, e tra questi anche i risultati delle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti».

Che impatto avrà sul resto del mondo il voto americano a novembre?
«È chiaro che le elezioni avranno conseguenze. Io sono apolitico negli Stati Uniti. Non mi registro nemmeno per votare, tantomeno per sostenere i candidati di uno dei due partiti, ma do consigli a entrambi. Se l’attuale presidente fosse rieletto, si creerebbe un certo grado di continuità. Non ho condiviso alcune sue scelte. Non sono stato d’accordo con il ritiro dall’Afghanistan attuato dal presidente Biden. Temevo che il risultato sarebbe stato non solo straziante e tragico, ma disastroso. Purtroppo così è stato. Alcune decisioni avrebbero dovuto essere più rapide quando si trattava di fornire risorse all’Ucraina; l’incapacità di farlo con la necessaria rapidità, è costata agli ucraini. Ora è fondamentale che l’assistenza continui e l’attuale amministrazione la sostiene con forza. Nel complesso l’attuale amministrazione ha svolto un lavoro credibile nell’elaborazione di un approccio globale e integrato nei confronti della Cina, per garantire che la deterrenza sia solida nella regione indo-pacifica; così come in generale nella risposta all’Iran».

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E se invece torna Donald Trump alla Casa Bianca?
«Ci sarebbe un certo grado di imprevedibilità. Abbiamo visto le sue dichiarazioni. Ma ricordiamo anche che l’approccio alla Cina è stato molto simile, anzi in realtà c’è stata più continuità tra le due amministrazioni che cambiamenti. Sospetto che in gran parte continuerà a essere così. Le differenze potrebbero riguardare il rapporto con la Nato, forse con la Russia. La sfida con Trump, ancora una volta, è nel grado di imprevedibilità. Come si vide, ad esempio, quando durante la sua presidenza le nostre forze vennero ritirate dalla Siria con un preavviso di 24 ore e poi rimesse in campo pochi giorni dopo».

Biden è in grave difficoltà in Medio Oriente. Ha sbagliato a lasciarsi risucchiare da una crisi in quella parte del mondo? Lui aveva condiviso la dottrina Obama che dettava un «pivot to Asia», una conversione per concentrarsi sulla Cina. L’America ormai indipendente sul piano energetico, ha ancora interessi vitali in Medio Oriente?
«Ci sono un gran numero di interessi nella zona. Uno è la libertà di navigazione, soprattutto perché determina la fornitura di gas e petrolio all’economia globale. Oltre a questo abbiamo importanti alleanze con vari Paesi nella regione e anche nemici importanti. La regola numero uno in Medio Oriente è avere ben chiaro chi sono i tuoi amici e i tuoi nemici. L’Iran rientra chiaramente nella categoria dei nemici, sta dietro l’addestramento, l’equipaggiamento, il finanziamento e spesso la direzione di gruppi come Hezbollah nel Libano meridionale, le milizie sciite in Iraq, gli Houthi nello Yemen e naturalmente Hamas a Gaza. Ognuno di questi è un problema. Questo chiarisce perché gli Stati Uniti devono rimanere focalizzati sul Medio Oriente. “Pivot to Asia” è stata una definizione infelice perché implica un distrarsi dal Medio Oriente. La parola migliore sarebbe riequilibrio. Possiamo concentrarci meglio sul più importante scenario del mondo, dove avviene il più importante confronto del mondo: tra la Cina da una parte, gli Stati Uniti e i nostri alleati dall’altra. Ma dobbiamo tenere, sempre, gli occhi aperti sulla situazione in Medio Oriente».


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5 marzo 2024 (modifica il 5 marzo 2024 | 09:57)