Le regole di mercato europee fissano un principio netto: l’azionista quando compra sa di assumersi un rischio. Ma qui, hanno stabilito i tribunali, per molti di loro il tavolo era truccato. E se dall’insinuazione al passivo e dalle cause penali contro i manager sarà improbabile recuperare qualcosa, i soci in una prima fase hanno avuto diverse occasioni per riprendersi una parte dei loro soldi, anche attraverso gli arbitrati. La fetta più grossa la mettono le banche stesse nel 2017, prima della liquidazione, quando offrono il 15% di quanto pagato per le azioni, in cambio dell’impegno a non fare causa. Aderisce il 70%, e 121.144 azionisti di spartiscono 441 milioni. Sembra finita così. Invece in loro soccorso arriva il governo giallo-verde guidato da Conte, con il Fir: fondo indennizzo risparmiatori. Un miliardo e mezzo di euro pescato dai depositi dormienti, cioè quei conti correnti fermi da 10 anni perché gli intestatari sono defunti e non ci sono eredi a reclamarli, e che per legge dovrebbero finire nelle casse dello Stato. Tra la fine del 2020 e le scorse settimane quel denaro è servito per restituire a 129.412 investitori (su 140mila richieste) il 40% di quanto speso per le azioni, e il 95% del valore delle obbligazioni, fino a un massimo per entrambi di 100mila euro, e sempre al netto di quanto eventualmente ottenuto in passato, a partire dall’offerta transattiva del 2017. Ad averne diritto persone fisiche, imprenditori individuali, associazioni e microimprese, compresi alcuni di coloro che avevano «perso» gli arbitrati perché non avevano subito nessuna frode ma semplicemente fatto consapevolmente una speculazione poi finita male (leggi il perché su Dataroom del 28 aprile 2019). Esclusi solo i «professionisti» del settore e chi ha rivestito ruoli di vertice nelle banche. Una platea vastissima dunque, che comprende anche i risparmiatori di altre nove banche «risolte» o finite in liquidazione coatta amministrativa tra 2015 e il 2018, a cominciare da Banca Etruria, Banca delle Marche, Cassa di risparmio di Chieti, e CariFerrara.
Ai risparmiatori della Popolare di Vicenza sono arrivati 624.886.903 euro. In tutto gli indennizzati sono stati circa 50mila, 20mila nella sola provincia di Vicenza, 2700 in Sicilia e Calabria, dove operava la controllata Banca Nuova. Per Veneto Banca, 423.689.440 euro spartiti tra 34mila soci, 18mila nella sola provincia di Treviso, dove aveva il suo quartier generale. Altri tremila risparmiatori liquidati in Puglia, sede della controllata Banca Apulia.
E i responsabili di tutto questo invece che fine hanno fatto? Vincenzo Consoli - per 18 anni alla guida di Veneto Banca - dopo aver trascorso sei mesi agli arresti domiciliari in appello è stato condannato per ostacolo alla vigilanza e si è visto ridurre la pena a 3 anni a causa dell’intervenuta prescrizione dei reati di falso in prospetto e aggiotaggio. Mobili antichi e opere d’arte sono finiti all’asta, e ogni mese gli viene pignorato un quinto della pensione, che comunque ammonta a circa 15mila euro lordi mensili. In attesa della Cassazione, continua a vivere nella villa di Vicenza, che è sotto sequestro. Anche a Gianni Zonin, per vent’anni presidente di Popolare di Vicenza, in appello la pena è scesa a 3 anni e 11 mesi per effetto della prescrizione. Con lui condannati altri 4 manager. Sotto sequestro le poche proprietà che risultano ancora intestate a lui: una chiesetta nel Chianti e un campo a Gambellara. È rimasto a vivere nella sua villa a Montebello Vicentino che però è sottoposta a sequestro conservativo (insieme ai quadri, mobili e i vini della cantina), e in caso di condanna definitiva potrebbe andare tutto all’asta. Ogni mese gli viene pignorato un quinto della pensione da imprenditore agricolo, che ammonta a poco più dimille euro al mese. Lo aiutano i figli, ai quali nel 2016, un attimo prima del dissesto, ha ceduto le sue quote nelle aziende vitivinicole di famiglia.