Israele e Hamas, il bilancio di 3 mesi di guerra: «L’America è sola nel fermare l’incendio, in troppi lo alimentano»

di Massimo Gaggi

Intervista al politologo Ian Bremmer: «Restare in assetto di guerra potrebbe non dispiacere a Netanyahu, visto che quando tornerà la pace dovrà di sicuro lasciare la guida del governo»

Israele e Hamas, il bilancio di 3 mesi di guerra: «L’America è sola nel fermare l’incendio, in troppi lo alimentano»

Ian Bremmer (Epa)

T re mesi di guerra in Medio Oriente. Il feroce attacco di Hamas del 7 ottobre ha provocato la durissima reazione di Israele. Un conflitto brutale ma che sembrava concentrato su Gaza, ha prodotto successivamente scosse sismiche dalla West Bank cisgiordana al Libano, alla Siria, a Bagdad, al Mar Rosso dove i ribelli Houthi filoiraniani attaccano le forze militari degli Stati Uniti, ma anche il traffico navale commerciale.

Andiamo verso una guerra regionale nonostante tutti i tentativi, soprattutto americani, di circoscrivere il conflitto? Appena rientrato da un lungo viaggio nell’Antartico, il fondatore e capo di Eurasia Ian Bremmer non nasconde il suo pessimismo.
«Da politologo ho ammirato il modello di governance creato da tutti i Paesi del mondo, e soprattutto dalle grandi potenze, in quel gelido continente: il primo luogo nel quale sovietici e americani conclusero, già nel 1959, un accordo per il controllo degli armamenti. Da allora i trattati, che riguardano anche la Cina e altri Paesi, sono stati sempre rinnovati. Quello attuale resterà in vigore fino al 2048. Vuol dire che per un altro quarto di secolo non dovremo preoccuparci di questa parte del Pianeta: straordinario. È stato bello girare tra basi di vari Paesi divisi da aspri conflitti — basi russe, americane, cinesi — senza mai avere problemi: si parla solo di scienza. Bello passare dal caotico mondo “G zero” a un luogo di pace nel quale si lavora insieme per preservare un bene comune. Tutto il contrario di quello che accade in Medio Oriente dove non c’è più solo il conflitto Israele-Hamas: si moltiplicano i focolai potenzialmente esplosivi».

Dopo l’uccisione del numero due di Hamas a Beirut si è temuto un allargamento del conflitto al Libano, ma esperti come Cliff Kupchan, a lei vicino, si sono detti convinti che l’Iran, pur impegnato a tenere alta la tensione con Israele e Stati Uniti, non vuole una vera guerra, non vuole coinvolgimenti diretti in conflitti.
«È così: né Teheran né gli Emirati o i sauditi hanno interesse a vedere la regione sconvolta da una vera guerra, ma ci sono molte altre micce che possono prendere fuoco. Facciamo un confronto con la guerra in Ucraina: due anni dopo l’invasione russa quel conflitto, per quanto cruento, è rimasto sostanzialmente contenuto a questi due Paesi mentre in Medio Oriente dopo tre mesi di guerra a Gaza abbiamo incendi in Siria, Libano, nella West Bank, nel Mar Rosso, per non parlare delle violenze antisemite e islamofobiche che si diffondono anche in Europa e negli Stati Uniti».

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Che cosa alimenta l’incendio?
«Ci sono troppi attori della regione che hanno interesse a rendere lo scontro sempre più cruento anche a costo di perdere il controllo della situazione. Hamas non ha nulla da perdere, sapendo che Israele vuole annientarla, e quindi tenta di fare più danni possibili, anche se le sue capacità militari sono ormai ridotte. I ribelli Houthi continueranno ad attaccare le istallazioni militari americane. L’Iran non si farà coinvolgere direttamente e non vuole una guerra, ma non li frenerà più di tanto. E poi c’è Israele: ora vuole andare fino in fondo con tutti quelli che non riconoscono il diritto alla sua esistenza. Restare in assetto di guerra potrebbe non dispiacere più di tanto a Netanyahu, visto che quando tornerà la pace lui dovrà sicuramente lasciare la guida del governo e potrebbe anche finire in prigione».

Il segretario di Stato Usa, Anthony Blinken, percorre in lungo e in largo l’area per cercare di scongiurare l’allargamento del conflitto. L’inviato speciale americano Amos Hochstein è tornato a sorpresa a Beirut dopo l’uccisione di Arouri per cercare di evitare che anche il Libano scivoli nel baratro. E qui il leader degli Hezbollah, Hasan Nasrallah, pur promettendo vendetta, definisce le rappresaglie contro Israele una reazione obbligata contro un avversario che ha rotto un tacito equilibrio di deterrenza. Non sembrano parole di uno che vuole una vera guerra.
«È vero, Hezbollah è filo iraniano ma ha anche un ruolo politico, responsabilità quasi istituzionali nel fragile mosaico libanese. Nasrallah ha motivi per essere cauto, ma è tutto relativo in una situazione così incandescente, mentre il ministro della Difesa di Israele dichiara che le finestre per un dialogo col Libano si stanno chiudendo. L’America cerca disperatamente di evitare la guerra, ma è sola. O, almeno, molto più sola di quanto non fosse quando Putin ha attaccato l’Ucraina».

E Joe Biden ha anche problemi interni.
«Esatto. Il presidente è personalmente convinto della necessità di continuare a sostenere Israele pur non condividendo quello che sta facendo, ma la sua azione è indebolita dall’opposizione a questo appoggio e al “no” al cessate il fuoco di buona parte del suo partito, di gran parte dei giovani americani e anche di alcuni nello staff della Casa Bianca».


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8 gennaio 2024 (modifica il 8 gennaio 2024 | 07:09)