Eshkol Nevo, il diario di guerra: la finta normalità e le lacrime all’improvviso

di Eshkol Nevo

Lo scrittore israeliano: «Ogni mattina scorro la lista dei caduti, il cuore batte forte Io dico di sì a ogni richiesta: mi riempio l’agenda perché non mi resti il tempo per la tristezza»

Eshkol Nevo, il diario di guerra: la finta normalità e le lacrime all’improvviso

La prima puntata è uscita sul Corriere il 7 novembre,
La seconda il 3 dicembre

Alzarsi al mattino. Aprire gli occhi. Allungare la mano verso il cellulare. Entrare nel sito delle notizie. Scorrere la lista dei caduti. Ogni mattina il portavoce dell’esercito pubblica i nomi dei soldati uccisi a Gaza il giorno precedente. L’occhio si posa sui nomi. Il cuore batte forte. Una prima lettura, veloce, per assicurarmi che tra i morti non ci sia nessuno che conosco. Il bilancio finora, dopo due mesi e mezzo di guerra, è: il figlio di una cara amica. Il figlio di un’allieva. Il fratello della migliore amica di mia figlia.

Stamattina non riconosco nessun nome. Grazie a Dio. Seconda lettura, più lenta. Per rispetto ai caduti. Chi abbiamo perso stanotte. Quali giovani vite sono state stroncate. Nelle fotografie sembrano sempre bambini travestiti da soldati. Poi alzarsi dal letto. Costringersi ad alzarsi dal letto anche se il corpo è pesante, pesantissimo. Ti tira giù, nella disperazione. Indossare pantaloni sportivi. Uscire fuori, in strada, e iniziare a correre. Questa faccenda della corsa non l’avevo mai capita. È sgradevole per il corpo. Non c’è una trama. Non c’è il pallone.

Ero abituato a guardare gli uomini della mia età mentre correvano e pensare che ci sono modi migliori per risolvere la crisi di mezza età. Da quando è iniziata la guerra, corro anch’io. Tutte le mattine. Mi sono ripromesso di continuare fino a che non sarà finita. Come Forrest Gump. Non ho scelta. È impossibile iniziare la giornata con tutta questa tristezza in gola. Serve qualcosa per riequilibrare. Qualcosa che inietti un briciolo di speranza nel sangue. Le strade sono deserte, è prestissimo. Ovunque, sugli alberi, sulle facciate dei palazzi, nelle piazze, sono appese le fotografie degli ostaggi. Correndo ci passo davanti. Mi domando chi di loro è già tornato. Chi è ancora lì, in un tunnel buio. E chi non tornerà più. Rientro. Doccia. Accendo il telefono. Una foto da A. Finalmente. Tiro un sospiro di sollievo.

Un mese fa A. mi ha scritto un messaggio su WhatsApp. Voleva condividere che i miei libri lo hanno accompagnato nei momenti chiave dell’esistenza e raccontarmi che adesso la sua squadra sta combattendo a Gaza. Mi ha chiesto se potevo mandare a lui e ai suoi ragazzi il mio ultimo libro con una dedica personale a ciascuno. Tornavano per ventiquattro ore e poi sarebbero ripartiti per Gaza. Una sera ho lasciato le copie con le dediche nell’armadietto del contatore elettrico. Al mattino non c’erano più. Da allora non ho più ricevuto notizie da A. Stavo iniziando a preoccuparmi sul serio, temevo che gli fosse successo qualcosa. Ma adesso è arrivata la fotografia. Sei soldati con il libro in mano, le facce sfocate dai pixel. Probabilmente erano arruolati in un’unità segreta. Non lo so né lo voglio sapere. Gli scrivo che gli auguro ogni bene, di tornare a casa sani e salvi. Nella casella di posta elettronica trovo un’altra richiesta da parte di un soldato. Questa volta è un riservista, si chiama Eliezer, è dislocato al confine settentrionale. Chiede se «posso andare da loro a leggere uno dei miei racconti?».

Gli scrivo di sì, certo. In questo periodo dico di sì a tutto. A qualsiasi richiesta. Mi riempio l’agenda perché non mi resti il tempo per la tristezza. Più tardi io ed Eliezer ci accordiamo. Ma la settimana successiva arriva un altro soldato a prendermi alla stazione del treno. Non Eliezer. A quanto pare Eliezer è stato trasferito in un’altra base. Non ti preoccupare, dice Oren che è venuto al suo posto, sei in buone mani.

Oltrepassiamo tutti i posti di blocco, proseguiamo in strade deserte e raggiungiamo un avamposto proprio sul confine. Per tutta la settimana ho rimosso il fatto che quella è zona di guerra e io mi sto mettendo in pericolo, e ora è troppo tardi per cambiare idea. Incontro i soldati. Mi aspettano sotto un grande telone di stoffa. Parliamo di amicizia, della strada non presa, di cosa significa essere israeliani in questi giorni. Poi gli leggo un racconto.

Dopo due paragrafi boom, un boato. Piuttosto forte. Mi fermo e ricordo che Oren ha detto che in caso di lanci di missili ci saremmo dovuti precipitare nel rifugio mobile. Ma nessuno dei riservisti fa un passo. Penso tra me e me, beh, o trovano il mio racconto davvero avvincente oppure sanno qualcosa che io non so. E proseguo nella lettura. Dopo qualche altro paragrafo si sente un altro boom. Più vicino. E giusto prima della fine del racconto, in una sorta di pausa drammatica, l’ultima esplosione, vicinissima. Quando finisco di leggere mi spiegano che i boom erano «provocati dalle nostre forze». Dopodiché fanno domande sul racconto, e sui finali a aperti, e sulla vita. Alla fine Oren mi riaccompagna al treno e per strada dice che sente che questo momento contiene anche il potenziale per un tikkun interno, una riparazione, della nostra società. Gli rispondo che lo credo anch’io. Stabiliamo di rincontrarci dopo la guerra.

Nessuno sa quando succederà. Forse tra un mese. Forse tra un anno. Nel frattempo si è creata una nuova quotidianità. Una pseudo-quotidianità. Come se l’anima si stesse abituando. Come se la vita tornasse alla normalità. Ma non è vero. Ogni tanto qualcuno crolla. Ogni tanto quel qualcuno sono io. Ieri, ad esempio. Ho parcheggiato l’auto vicino al nuovo stadio di calcio che da ormai due mesi resta deserto, inutilizzato. All’improvviso alla radio hanno trasmesso una canzone di Marianne Faithfull, The ballad of Lucy Jordan. Il testo della canzone non parla di soldati. O di guerra. Tutto sommato racconta la storia di una donna di trentasette anni che si rende conto che non guiderà più una macchina sportiva a Parigi mentre il vento le scompiglia i capelli. Non c’era motivo per cui questa canzone mi facesse piangere. Eppure ho pianto come un bambino, nel parcheggio dello stadio di calcio. A fine canzone mi sono asciugato le lacrime, sorpreso della mia stessa reazione, e sono andato a insegnare scrittura creativa. Che scelta avevo. Gli studenti mi aspettavano in classe e tutte le classi in cui sono entrato negli ultimi due mesi sono classi terapeutiche. Tutti sono al limite. Tutti sono traumatizzati in un modo o nell’altro e si aspettano qualcosa da me. La responsabilità dell’energia nella stanza è mia. La responsabilità dell’energia nella maggior parte delle stanze in cui entro, è mia. Perciò ogni mattina vado a correre e bevo un espresso e dopo un altro e dopo un terzo e penso alle crisi che ho vissuto in passato e poi superato e penso alla prossima primavera in Italia e all’appartamento in piazza Emanuele Filiberto, poi entro nella stanza e aiuto le altre persone a esprimere i loro sentimenti, o a dimenticarli, e aiutare gli altri è il modo migliore per aiutare se stessi, ce lo insegna il buddhismo, e gli studenti sono grati, dell’opportunità di scrivere, dell’opportunità di stare insieme, anche se durante l’incontro siamo corsi due volte nel rifugio perché sono partite le sirene d’allarme, io li saluto e torno alla mia auto in cui ho pianto e mi avvio e un minuto dopo scatta un altro allarme e io seguo le direttive: scendo dal veicolo. Mi sdraio accanto all’auto. Metto le mani sopra la testa. Aspetto cinque minuti. Intanto penso alle cose che non ho ancora avuto il tempo di fare, per esempio un viaggio in Colombia, o vedere la mia figlia maggiore sotto il baldacchino nuziale, e cosa succederebbe se morissi adesso. Poi mi alzo e riprendo a guidare, passo attraverso la piazza dove fino a tre mesi fa manifestavamo per la democrazia e contro il governo. In quella piazza adesso non ci sono manifestazioni. Ma ce ne saranno. Ne sono sicuro. Insieme alla tristezza, sta montando anche la rabbia. Monta e si affina. Il momento in cui chiederemo le dimissioni del primo ministro più catastrofico della storia di Israele arriverà. Sono settimane che scrivo l’articolo in cui esorto Netanyahu ad andarsene a casa. Ma mi trattengo. Mi mordo forte la lingua. Questi sono tempi di guerra, non di politica.

Quando arrivo a casa dormono tutti, il soggiorno è silenzioso. Accendo la Cnn per vedere le immagini da Gaza. Sui canali israeliani le immagini di Gaza non le mostrano. Come se l’empatia nei confronti dei civili indifesi a Gaza potesse abbattere il morale della nazione. A Rafah la pioggia cade su donne e bambini che non hanno un tetto sotto cui ripararsi. C’è una ragazzina che ricorda vagamente la mia seconda figlia. Trema di freddo. Ha fame. Ho la tentazione di cambiare canale, ma rimango. La guerra è una cosa atroce. Non possiamo dimenticarlo. Anche se viene imposta, ed è stato Hamas a imporre la guerra a noi e a Gaza, non ci ha lasciato nessuna alternativa, la guerra è una cosa atroce. La vittoria vera in questa guerra arriverà solo se sarà seguita dalla pace.

Traduzione di Raffaella Scardi


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26 dicembre 2023 (modifica il 27 dicembre 2023 | 17:47)