C’è un’America che dà ragione al Papa: «C’è un Nuovo Asse, la Terza guerra mondiale è cominciata»

E se avesse ragione papa Francesco? In vari discorsi il pontefice ha parlato di una Terza guerra mondiale, come se fosse già cominciata. Forse tra l’Ucraina e il Medio Oriente siamo già scivolati dentro un terzo conflitto mondiale.

I moniti del papa trovano una risonanza in un mondo che gli è intellettualmente distante, la destra americana della realpolitik, abituata ad analizzare la geopolitica alla luce dei rapporti di forze tra le grandi potenze. Due analisi apparse nell’ultimo numero della National Review, un organo autorevole del pensiero conservatore (non trumpiano, anzi generalmente anti-trumpiano), sembrano allinearsi con la visione del mondo evocata dal papa argentino.

Il «Nuovo Asse» e il parallelo con la Seconda guerra mondiale

Nella loro analisi il mondo è sottoposto all’offensiva di un nuovo Asse, analogo a quello che unì la Germania nazista, l’Italia fascista, e il Giappone militarista nella seconda guerra mondiale. La prima analisi con questo taglio è di Mike Watson, uno dei dirigenti dello Hudson Institute. Nel saggio intitolato «The Fragility of Civilization», Watson osserva: «Si può obiettare che l’attacco della Russia contro l’Ucraina e l’attacco per procura dell’Iran contro Israele(usando Hamas, ndr) non sono collegati fra loro. È vero. Le nuove potenze alleate dell’Asse non si fidano l’una dell’altra, proprio come le vecchie potenze dell’Asse, e non sembrano condividere pienamente le rispettive strategie l’una con l’altra. Ma una persona adagiata nell’autocompiacimento nel 1936 avrebbe avuto egualmente ragione a sottolineare che l’invasione giapponese della Manciuria, quella italiana in Etiopia, e la guerra per procura combattuta dalla Germania in Spagna, non erano i prodotti di un unico grande disegno. Alla fine però quelle tre potenze si unirono per conquistare gran parte dell’Europa e dell’Asia».

Che cosa è in grado di fare l’Iran: «Conseguenze immense»

A questa analogia Watson aggiunge un’analisi sulla portata in gioco dell’attacco contro Israele: «Molte delle componenti più critiche e dinamiche dell’economia globale sono altrettanto vulnerabili quanto lo è Israele. L’Iran lo ha dimostrato quando ha colpito la raffineria petrolifera Abqaiq in Arabia saudita nel 2019: è capace di devastare i mercati energetici mondiali usando solo pochi missili e droni; e ha la volontà per farlo. Se la crisi di Gaza si allarga in un vasto conflitto regionale, le conseguenze potrebbero essere immense: l’Iran ha più di 3.000 missili ballistici ed ha armato Hezbollah con più di 100.000 razzi. Razzi e artiglieria potrebbero chiudere il Canale di Suez, un quinto del petrolio e del gas mondiale potrebbe rimanere bloccato nel Golfo, negato alle fabbriche e alle case di Europa e Asia. La capacità d’innovazione d’Israele, che ha migliorato le vite di milioni di persone nel mondo intero, sarebbe dirottata in una lotta per la sopravvivenza. Il costo umano si estenderebbe ben oltre il Medio Oriente».

L’importanza del controllo delle coste

L’immagine del Nuovo Asse, parallelo a quello fra Berlino Tokyo e Roma nella seconda guerra mondiale, ritorna sulla National Review in un altro saggio, firmato da Seth Cropsey: ex alto ufficiale della U.S. Navy ed ex sottosegretario alla Marina militare, è il fondatore dello Yorkstown Institute. Cropsey aggiorna le analisi classiche del pensiero geopolitico sui conflitti per il dominio dello «Eurasian rimland», cioè la cornice o fascia costiera della massa continentale eurasiatica. L’importanza di controllare le zone marittime e costiere dell’Europa, del Medio Oriente e dell’Asia, fu teorizzata negli anni Trenta del Novecento dallo studioso americano Nicholas John Spykman. Le sue visioni ispirarono la strategia di «contenimento» adottata dagli Stati Uniti nei confronti dell’Unione sovietica. Oggi secondo Cropsey due aree cruciali del «rimland eurasiatico» sono già in piena guerra, Ucraina e Israele. «Russia, Cina, Iran – scrive – hanno forgiato un’intesa che assomiglia all’Asse di metà Novecento. Queste nuove potenze revisioniste (nel senso che vogliono “rivedere” l’ordine internazionale, scardinarlo per sostituirlo con un assetto alternativo, ndr) condividono alcuni obiettivi strategici con i loro predecessori. Non sopportano le restrizioni di un sistema internazionale che non concede agli Stati autoritari il diritto di espandersi a spese dei vicini più piccoli. Cercano di dominare le loro aree per assicurarsi un controllo economico a lungo termine sul mondo, soprattutto a fini domestici. Abbracciano ideologie – il nazional-fascismo russo con la sua mescolanza di razzismo gerarchico e nostalgia sovietica; il khomeinismo iraniano con le sue pretese universaliste e il suo antisemitismo, il totalitarismo cinese con il suo culto della personalità – che sono nemiche del liberalismo, del governo rappresentativo, dei bilanciamenti tra poteri nello Stato di diritto».

La difficoltà di coordinamento delle tre potenze del Nuovo Asse

Proprio come negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, le tre potenze del Nuovo Asse hanno delle difficoltà a coordinarsi. In parte questo è legato alle profonde differenze ideologiche tra loro: il fanatismo islamico che comanda in Iran è odiato da Putin e Xi (e represso nei rispettivi paesi), anche se vi trovano un alleato utile per disfare l’ordine occidento-centrico. Lo temono anche perché l’islamismo di Teheran è l’unica ideologia veramente universale, visto che si rivolge a un miliardo e mezzo di musulmani dal Maghreb all’Indonesia, più le tante comunità d’immigrati in Occidente; mentre né il putinismo né il totalitarismo cinese hanno lo stesso appeal universale.

Inoltre le tre potenze hanno interessi di lungo periodo divergenti. Non è difficile immaginare un futuro conflittuale tra Cina e Russia quando sarà evidente – e sempre più umiliante – la colonizzazione economica della seconda da parte della prima. Un eventuale successo delle mire iraniane per l’egemonia nel Golfo danneggerebbe sia la Russia (concorrente nella produzione di energie fossili) sia la Cina (prima importatrice mondiale di petrolio e gas).

Ma anche Hitler Mussolini e Hirohito ebbero interessi divergenti e perfino conflittuali; ciò non impedì che unissero le loro forze con l’obiettivo di distruggere un ordine internazionale guidato dai loro nemici. Per adesso siamo a quella fase, per il Nuovo Asse. «La Russia – scrive Cropsey – cerca di assorbire l’Ucraina (e insieme ad essa Moldovia e Bielorussia), dominare il Caucaso, sottrarre la Turchia al campo occidentale, infine conquistare i Paesi Baltici, creando così un blocco capace di sfidare direttamente l’Occidente. L’Iran conduce una guerra di logoramento contro Israele con l’obiettivo di inondarlo di vittime e distruggerne l’economia. Abbattendo le fondamenta politiche dello Stato ebraico, e in parallelo attaccando le basi americane in Medio Oriente, l’Iran spera di usare la sua vittoria contro l’alleanza Usa-Israele per attirare ogni sorta di islamisti sotto le sue bandiere, proiettandosi alla guida dell’intero mondo islamico».

La Cina per adesso… sta a guardare, pur manifestando attivamente le proprie simpatie con il Nuovo Asse (non ha mai condannato né l’invasione dell’Ucraina né la mattanza di civili israeliani da parte di Hamas; ha irrobustito i suoi legami economici sia con Mosca sia con Teheran). All’apparenza Xi Jinping si accontenta di lucrare vantaggi dalle distrazioni di risorse americane verso altre zone del «rimland eurasiatico»: armi e munizioni, intelligence e capitale politico Usa vengono spesi a piene mani prima in Ucraina e ora in Medio Oriente. Di questa distrazione americana Pechino già ha cominciato a profittare con un succedersi di azioni militari aggressive verso i suoi vicini (Taiwan, Filippine). Xi e Putin potrebbero anche delegare alla Corea del Nord un terzo conflitto nel Pacifico, proprio come l’Iran ha delegato ad Hamas l’attacco contro Israele.

Il terzo fronte? Siamo noi

Non ci è dato sapere se e quando verrà aperto un nuovo fronte, in quella che il Papa chiama la Terza guerra mondiale. Secondo altre analisi, invece, il terzo fronte è già aperto da tempo: siamo noi. Lo spettacolo di masse giovanili che in Occidente sfilano dietro slogan pro-Hamas; congiungendosi con cortei di immigrati islamici che condividono gli stessi slogan per le vie di Londra e New York: visto con gli occhi di Xi, Putin, Khamenei, questo forse è il terzo fronte. Un mix tra gli effetti destabilizzanti di un’immigrazione incontrollata, e la diffusione metastatica di ideologie anti-occidentali nel cuore dell’Occidente; con le contro-reazioni elettorali che portano alla vittoria Geert Wilders in Olanda, domani forse al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.

I tre leader del Nuovo Asse totalitario, Xi Putin e Khamenei, hanno tutti e tre nella loro formazione culturale il senso della storia quale si dipana nei tempi lunghi, e pensano che i tempi giocano a sfavore dell’Occidente, viste le manifestazioni vistose del suo decadentismo. Dei tre, quello che ha anche le maggiori risorse economiche e tecnologiche per resistere a una guerra di posizione nel lungo termine, è Xi Jinping. Forse anche per questo è lui a concedersi il lusso di «rinviare» un’altra guerra calda nel cortile di casa sua.

L’analisi sull’Occidente «culturalmente molle»

Pur con le divisioni ideologiche che li caratterizzano, i jihadisti sunniti di Hamas, gli ayatollah sciiti di Teheran, Putin e Xi convergono su una descrizione dei loro avversari come «soft», culturalmente molli. Hamas ha interpretato le lacerazioni della società civile israeliana (le grandi battaglie contro i progetti di riforma giudiziaria di Netanyahu) come un segnale di debolezza; gli ayatollah iraniani sono convinti che la società israeliana per effetto del benessere economico di oggi stia diventando meno marziale e meno disposta a sostenere una guerra di lunga durata. Putin e Xi fanno la stessa analisi sulle società europee e americana, che hanno abbandonato patriottismo ed etica del sacrificio come fossero disvalori da ripudiare. Putin sembra aver sbagliato la sua analisi sul popolo ucraino, che si è rivelato finora più combattivo di quanto lui credesse. (Forse avrebbe avuto vita più facile invadendo la Germania). In Cina circolano analisi simili sulla società di Taiwan: troppo abituata al benessere per voler sacrificare la vita in difesa della libertà.

I nazisti, i fascisti, i militaristi giapponesi avevano giudizi simili sulle società americana inglese e francese negli anni Trenta e Quaranta: decadenti, moralmente dissolute, quindi inadatte a combattere. La storia fu quasi sul punto di dargli ragione. Se avessero vinto le correnti isolazioniste negli Stati Uniti, se Franklin Roosevelt non avesse avuto il «pretesto» di Pearl Harbor per intervenire nel Pacifico e in Europa, gli eventi potevano seguire un percorso molto diverso. Questo porta alla conclusione convergente degli analisti conservatori sulla National Review: l’America non deve stare a guardare, ciascuno dei conflitti dall’Ucraina all’Israele la riguarda in modo vitale, un ritorno all’isolazionismo avrebbe conseguenze terribili.

Sul controllo del «rimland» eurasiatico si gioca la sopravvivenza del mondo libero e quindi l’interesse strategico degli Usa. La leadership americana – a differenza di quanto pensa Trump – va esercitata con senso di misura e pragmatismo, ma non deve ritirarsi.

28 novembre 2023, 16:55 - modifica il 29 novembre 2023 | 12:58

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