Dentro Gaza City con i soldati israeliani: «Così staniamo Hamas, dobbiamo eliminarla una volta per tutte»

di Anshel Pfeffer

Con i soldati israeliani della 401esima brigata corazzata che utilizzano i visori termici per individuare i terroristi, pronti a colpire dal sottosuolo: «Non scendiamo mai nei tunnel, appena troviamo un’entrata chiamiamo gli artificieri per farla saltare»

Dentro Gaza City con i soldati israeliani: «Così staniamo Hamas, dobbiamo eliminarla una volta per tutte»

Mentre il sole tramontava sul Mediterraneo, i colpi di mortaio lanciati da un presidio nascosto di Hamas si facevano sempre più vicini. Quando un proiettile si è schiantato a 200 metri dalla postazione di comando di una brigata israeliana in un quartiere a nord di Gaza City, i soldati si sono messi subito sulla difensiva.«Un colpo di mortaio è caduto proprio qui vicino la notte scorsa», rivela un ufficiale. «Gran parte dei terroristi di Hamas in questo settore sono stati eliminati o sono fuggiti, ma ce ne sono in giro ancora abbastanza da costringerci a non abbassare mai la guardia».

Mentre parla, dalle torrette dei carri armati Merkava 4 attorno alla postazione di comando, gli artiglieri continuano a scrutare le ultime palazzine a più piani rimaste ancora in piedi. Utilizzano videocamere sensibili al calore per individuare minimi segni di movimento, per poi aprire il fuoco con le mitragliatrici contro i punti sospetti.«I miliziani di Hamas si sono rifugiati tutti sotto terra», mi spiega un tenente colonnello, comandante di brigata. «Non ci combattono all’aperto. E per noi è difficile individuarli quando sbucano fuori per pochi istanti, da uno degli ingressi alla rete dei tunnel, per tentare un agguato».

I divani rossi

La postazione di comando è sulla veranda di una villetta affacciata sul mare, ormai ridotta a un cumulo di macerie. Su un tavolo, i soldati hanno sistemato le loro razioni. Difficile capire quanti piani avesse in origine la villetta, solo il piano terra è rimasto quasi indenne. Una tubatura dell’acqua, inutile e contorta, punta verso il soffitto da un angolo. Di ciò che rimane del primo piano, si scorgono alcuni divani rossi in una stanza senza muri, sospesi su qualche trave del soffitto.

«Abbiamo visto pochissimi civili negli otto giorni passati qui finora», dice il tenente colonnello. Né hanno avvistato gli uomini di Hamas. Accanto alla postazione sorge un edificio scolastico, la sua ala sinistra è un ammasso di calcinacci. «Non avevamo nessuna intenzione di colpire la scuola», spiega l’ufficiale. «Ma Hamas ha aperto il fuoco da quella direzione e quando ci sparano addosso, noi rispondiamo. Hanno sparato anche dalla moschea». Il minareto della moschea adesso è inclinato da un lato, colpito in pieno da un proiettile di artiglieria.

Malgrado la vigilanza costante dei droni israeliani che ronzano in aria, Hamas trova ancora il modo per bersagliare le truppe. L’occasione per prendere atto della devastazione ci è stata fornita ieri seguendo da emdedded la 401ma Brigata corazzata, impegnata nell’aprirsi un varco in città. In una guerra in cui fatti e dettagli vengono contesi con la stessa ostinazione dei metri di territorio, l’accesso è rigorosamente controllato, e questo racconto è stato sottoposto all’approvazione delle Forze armate israeliane (Idf).

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La distruzione

Siamo circondati da quanto resta dopo gli ultimi scontri a fuoco. Si vede subito che i centri abitati del settore nord di Gaza sono stati quasi tutti rasi al suolo. Nella stessa Gaza City, i danni sono ingenti, anche se alcuni edifici sono rimasti in piedi anche dopo quattro settimane di bombardamenti che (secondo il ministero della salute di Gaza, controllato da Hamas) hanno causato oltre novemila vittime. Centosessanta chilometri a est, i diplomatici dei Paesi arabi riuniti nella capitale giordana, Amman, hanno chiesto l’immediato cessate il fuoco.

Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, non era d’accordo: una tregua avrebbe lasciato Hamas «al suo posto, in attesa di riorganizzarsi e ripetere quanto perpetrato il 7 ottobre». Poco fa, quando il nostro convoglio corazzato ha attraversato quella che una volta era la barriera di confine, ora quasi del tutto smantellata, due serie rapidissime di lampi gialli e rossi passano sopra le nostre teste. Provengono da sud. Qualche istante più tardi, risuonano le sirene nella città israeliana di Ashdod. I razzi vengono neutralizzati in volo dal sistema difensivo Iron Dome. Mentre la colonna di mezzi corazzati si avvia verso sud, imboccando un tracciato sabbioso scavato dai cingolati lungo la costa, un ordigno improvvisato esplode dietro il carro di testa, senza provocare danni.

Più giù, un colpo di mortaio centra il primo veicolo di una colonna logistica. Per qualche minuto, le due colonne si bloccano, mentre gli artiglieri osservano attentamente le macerie. Il convoglio infine raggiunge la villetta della postazione di comando senza altri incidenti. Ma non tutti hanno avuto la stessa fortuna. Qualche giorno fa, un corazzato Namer, per il trasporto delle truppe, è stato bersagliato da due missili anticarro e tutti i suoi occupanti, una decina di soldati, sono morti.

Solo un mese fa, oltre un milione di palestinesi viveva a Gaza City e nei dintorni, la zona circondata in questo momento dall’esercito israeliano. Per la maggior parte, i cittadini si sono rifugiati a sud, ma le autorità militari israeliane stimano che circa un quarto sia rimasto sul posto, soprattutto nel centro città. Oggi, sul terreno a Gaza City, gli sforzi dell’offensiva israeliana sono rivolti verso il basso. «Abbiamo già identificato decine di ingressi alla rete di tunnel», afferma Yiftach, un maggiore, richiamato al fronte dai suoi studi di Giurisprudenza. «Non scendiamo mai nei tunnel. Non appena troviamo un’uscita, chiamiamo gli artificieri per farlo saltare in aria».

I blindati

Anziché una squadra di fanteria, uno dei veicoli blindati ospita un’equipe medica. È stata allestita un’unità mobile di terapia intensiva, con un frigorifero per le sacche di sangue, un dottore e un paramedico, la trentaduenne Yonat, madre di due bambini piccoli, richiamata al fronte dal suo lavoro di operatrice del servizio nazionale di ambulanze in Israele.

«È la mia seconda guerra a Gaza», dice. «Sono stata tra i soccorritori nelle operazioni del 2014, ma ero a piedi. Adesso ci spostiamo sempre sui veicoli corazzati e questo ci consente di stabilizzare i soldati feriti ed evacuarli nel più breve tempo possibile, per trasferirli in ospedale con l’elicottero».

Prima di essere richiamata in servizio, Yonat è stata tra i primi ad accorrere alle comunità aggredite il 7 ottobre. Ma non vuole parlare di ciò che ha visto quel giorno. «Questa guerra è diversa dal 2014. Tocca un tasto molto più personale per me. Dobbiamo proteggere la nostra popolazione civile e far sì che una cosa del genere non accada mai più».

La tragedia

«Non posso dimenticare quello che ho visto in una macchina, mentre viaggiavamo verso il kibbutz Kfar Aza. Una mamma che stringeva in braccio il suo bebè, entrambi uccisi a colpi d’arma da fuoco», riferisce il tenente colonnello, che il 7 ottobre è stato inviato sul posto con una colonna di carri armati, dopo che decine di persone erano state trucidate nel kibbutz.

«Tutti noi, qui, nella brigata, conosciamo qualcuno che è stato ucciso il 7 ottobre e non abbiamo dubbi sul senso della nostra missione in questo momento». Gli alti ufficiali sanno benissimo che le pressioni internazionali potrebbero presto costringere Israele a ritirare parte delle sue forze armate. «Ci resta poco tempo prima di essere costretti a cambiare tattica, lo sappiamo benissimo. Perciò non ci fermiamo e andiamo avanti con tutte le forze a disposizione».

È la sua terza guerra a Gaza. Ha combattuto nel 2009 e nel 2014. Suo padre è riservista, oggi in servizio sul confine nord. «Hamas dev’essere eliminato una volta per tutte», dichiara. «Non voglio che mio figlio, che oggi ha quattro anni, sia costretto a venire a combattere a Gaza da grande».

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6 novembre 2023 (modifica il 6 novembre 2023 | 08:52)