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Se l’emergenza gas non è finita. L’Ue, la transizione verde e i giacimenti nel Mediterraneo

di Francesca Basso e Viviana Mazza

Se l'emergenza gas non è finita. L'Ue, la transizione verde e i giacimenti nel Mediterraneo

Questo articolo è tratto dalla newsletter «Europe Matters», un doppio sguardo su come l’Europa e gli Stati Uniti siano legati oggi più che mai, delle corrispondenti Francesca Basso (Bruxelles) e Viviana Mazza (New York). Ci si può iscrivere qui.

L’urgenza di una riforma del mercato elettrico europeo per ridurre l’impatto delle fiammate del prezzo del gas sui consumatori e la fretta di creare le infrastrutture necessarie per garantire la sicurezza energetica dell’Unione europea e dell’Italia sembrano usciti dal radar della politica e del grande pubblico. Con i prezzi del gas che oscillano tra i 30 e i 50 euro al megawattora — molto più bassi rispetto agli oltre 300 euro al megawattora dell’agosto scorso ma ancora più del doppio del periodo precedente la guerra in Ucraina — e con gli stoccaggi che si stanno riempiendo come da programma, la situazione sembra destinata alla normalizzazione.

Ma non c’è da eccedere nell’ottimismo, perché non si ha la garanzia che l’inverno sia mite e che altri eventi favorevoli si ripetano. Il livello di incertezza resta alto, l’Ue non può abbassare la guardia e la «diplomazia del gas» deve mettere in campo tutte le proprie risorse nel tentativo di trovare soluzioni a medio lungo termine. Perché come gli eventi dei mesi scorsi hanno evidenziato, non è solo una questione di energia ma anche soprattutto di geopolitica. E l’energia gioca un ruolo fondamentale anche per aiutare a stabilizzare politicamente e socialmente quelle aree che si affacciano sul Mediterraneo, come la Tunisia, la Libia o l’Est Mediterraneo.

«I livelli di stoccaggio del gas in Ue sono alti rispetto alla media, pieni al 72% della capacità. Siamo in linea per raggiungere l’obiettivo del 90% ben prima della scadenza del 1° novembre», ha dichiarato la commissaria Ue all’Energia Kadri Simson al termine del Consiglio Energia che si è tenuto a Lussemburgo il 19 giugno scorso. L’Italia ha invece già raggiunto circa l’80%. Ma non basta per stare tranquilli, un inverno più rigido del precedente potrebbe creare delle criticità. Una settimana fa i ministri dei 27 Paesi Ue non sono riusciti a trovare un accordo per la riforma del mercato elettrico europeo che avrebbe dovuto incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili per prevenire la volatilità dei prezzi che nei mesi scorsi è stata provocata dai tagli alla fornitura di gas da parte della Russia. Francia e Germania non sono riuscite a trovare un’intesa e servirà un supplemento di trattative.

Intanto procede l’azione Ue per sganciarsi dalla dipendenza del gas russo e lo strumento principale è RepowerEu, il capitolo aggiuntivo ai Pnrr nazionali nel quale gli Stati membri devono inserire i progetti che contribuiscono a eliminare la dipendenza dalle fonti fossili russe. «Prima della guerra, l’Ue importava 150-180 miliardi di metri cubi di gas dalla Russia — ci ha spiegato Xavier Rouseeau, senior vicepresident strategy di Snam —. Ora è scesa a 20-25 miliardi di metri cubi. È naturale che l’Ue cerchi alternative per avere un mercato sano con un equilibrio che poi si riflette sui prezzi. Anche nella transizione energetica, il gas mantiene un ruolo di backup del sistema, fornisce un elemento di sicurezza. E in prospettiva i gasdotti potranno trasportare molecole verdi come l’idrogeno».

Secondo la Commissione Ue l’Italia dovrebbe aumentare la capacità di trasporto interno del gas per diversificare le importazioni di energia e rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento. Bruxelles lo ha indicato nelle Raccomandazioni specifiche dedicate all’Italia del 24 maggio scorso. Il nostro Paese nel pacchetto RePowerEu presentato in via informale a Bruxelles dal ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto nelle settimane scorse dovrebbe avere inserito infrastrutture gas come la Linea Adriatica di Snam (circa 10 miliardi di metri cubi all’anno in più, fondamentale per sbloccare le forniture da Sud verso Nord come il gas algerino e con il potenziamento del Tap), il potenziamento dell’export verso l’Europa del Nord.

Il gas rimane una fonte fossile e per quanto l’Ue ne abbia bisogno ancora a lungo, la spinta principale resta la decarbonizzazione entro il 2050. Questo è uno dei motivi, insieme all’urgenza di trovare fornitori alternativi alla Russia, che ha fatto crescere l’interesse per il gas naturale liquefatto (Gnl) rispetto al metano trasportato via tubo. Secondo nuovi dati dell’Energy Institute, l’anno scorso le importazioni di Gnl in Europa hanno superato per la prima volta quelle di gas arrivato con i gasdotti.

La costruzione di nuove pipeline richiede ingenti investimenti, che per essere ripagati hanno bisogno di essere coperti da contratti a lungo termine della durata di almeno di 15-20 anni: vuol dire che chi decide di realizzare un’infrastruttura deve avere chi gli compra il gas a un certo prezzo per almeno vent’anni. Lo ha spiegato molto bene l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi nell’audizione alla commissione Esteri alla Camera dedicata al progetto EastMed il 17 maggio scorso. Si tratta del gasdotto che dovrebbe trasportare in Europa le riserve di gas del Mediterraneo orientale: una pipeline sottomarina lunga circa 1.900 chilometri da Israele alla Grecia, con una profondità che in alcuni tratti raggiungerebbe i 3 mila metri, e che si collegherebbe al tratto offshore del gasdotto Poseidon dalla Grecia all’Italia (Otranto). Il gasdotto dovrebbe in futuro essere in grado anche di trasportare idrogeno. Descalzi non si è espresso sul progetto perché l’Eni non è coinvolta e ha sottolineato che in questi casi spetta a chi ha il gas — Israele, Cipro, Egitto — decidere, se optare per una pipeline o per i rigassificatori.

Con l’interruzione dei flussi dalla Russia si è riaccesa l’attenzione nei confronti del Mediterraneo orientale. Una nave di Gnl dal Levante arriva in tre giorni nell’Adriatico mentre dal Qatar, il secondo fornitore Ue dietro gli Usa, ce ne mette una ventina. Tuttavia, l’Ue ha perso interesse nei confronti dell’EastMed. Le prime scoperte risalgono nel 2009 con il giacimento Tamar e un anno dopo con il Leviathan da parte di Israele, seguito da Afrodite al largo di Cipro nel 2011 e Zohr nel 2015 in Egitto da parte di un consorzio con anche l’Eni (la più grande scoperta di gas mai realizzata nel Mar Mediterraneo).

Quando le acque del Levante si rivelarono un’area di importanti giacimenti di gas, , i diplomatici europei e statunitensi furono ottimisti sul fatto che la ricchezza in arrivo potesse essere uno spunto importante di pacificazione e stabilizzazione della regione, a patto però che i Paesi coinvolti avessero trovato un’intesa. Ma così non è stato. L’Egitto è andato per conto proprio grazie soprattutto al maxi-giacimento Zohr, ha investito su due liquefattori e ora sta discutendo con Israele per portare il gas in eccesso in Europa, anche se il fabbisogno egiziano è molto alto e Il Cairo sta acquistando metano da Israele. Le esplorazioni nelle acque di Cipro sono continuate ma invece di essere elemento di pace hanno aumentato le tensioni tra Cipro e Grecia da una parte e la Turchia dall’altra.

Gli accordi sul gas hanno fatto poco, secondo alcuni esperti dell’International Crisis Group, per ridurre le tensioni tra Israele e Libano, mentre non hanno offerto vantaggi politici o economici ai palestinesi. Ma Vali Nasr, direttore della scuola di politica internazionale alla Johns Hopkins University ed ex consigliere per il Medio Oriente del presidente Obama vede le cose un po’ diversamente: ci ha detto lo scorso aprile che «uno dei principali successi in Medio Oriente dell’attuale amministrazione Biden è stata di aiutare a negoziare l’accordo tra governi libanese e israeliano sulla definizione dei confini e lo sfruttamento del gas naturale. Quell’accordo non ci sarebbe stato senza il via libera di Hezbollah e dell’Iran. Ma è fortemente dipendente dalla stabilità tra palestinesi, Israele, Libano, Gaza. Hezbollah ha minacciato in passato di colpire le piattaforme; non sono certo che lo farebbe, ma in questo modo il gruppo sottolinea che, se viene meno la sicurezza regionale, è a rischio anche la sicurezza energetica dell’Europa».

In più il Mediterraneo orientale ha solo un limitato potenziale di esportazione verso l’Ue perché le attuali riserve sono usate per coprire il fabbisogno interno dei Paesi della regione, le infrastrutture esistenti sono inadeguate per l’export e l’eventuale realizzazione del gasdotto EastMed richiederebbe anni. L’attenzione dell’Unione europea si concentra ora più sul Nord Africa: quando la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili raggiungerà un volume tale da poter essere utilizzata per produrre idrogeno verde (da elettrolisi) sarà fondamentale ilSoutH2 Corridor, una dorsale europea che attraverso una rete di 3.300 chilometri in grado di trasportare 4 milioni di tonnellate all’anno di idrogeno verde partendo dall’Algeria, transitando attraverso la Tunisia, passando sotto il canale di Sicilia, fino al punto di ingresso italiano di Mazara del Vallo verso Austria e Germania. Il progetto vede la firma di 4 TSO europei (operatori di trasmissione energetica) e una joint venture: Snam, le austriache Tag e Gca (delle quali Snam è azionista), la tedesca Bayernets e Sea Corridor, una joint venture tra Snam ed Eni. Ne hanno parlato anche la premier Giorgia Meloni e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, quando è venuto in visita a Roma. Lo scorso dicembre, il SoutH2 Corridor è stato candidato come Progetto di comune interesse (PCI) in Europa.

Il gasdotto EastMed resta nell’elenco dei Progetti di comune interesse dell’Ue come ha spiegato la commissaria Simson, ma ha anche aggiunto che «la fattibilità del gasdotto EastMed dipenderà dalla sua fattibilità commerciale basata sulle future dinamiche della domanda e del suo potenziale per contribuire agli obiettivi del Green Deal europeo». Il suo futuro è dunque più che mai incerto.

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