Luglio 2017, la nave da carico MV Aman battente bandiera del Bahrein e noleggiata da una compagnia libanese resta bloccata nel porto egiziano di Adabiya, nel Canale di Suez, per certificati di sicurezza scaduti. Né dal Libano né dal Bahrein arrivano i soldi per carburante e documenti, il comandante è a terra e i giudici locali nominano tutore legale del mercantile l’ufficiale più alto in grado rimasto a bordo, il siriano Mohammed Aisha, originario di Tartus imbarcato a maggio. Mese dopo mese la MV Aman si svuota e Mohammed si ritrova solo, con il divieto di allontanarsi da una nave ormai fantasma, senza elettricità e senza vita. Ogni settimana il giovane ufficiale nuota fino a riva per procurarsi il cibo e ricaricare il cellulare. Nessuno si muove per quattro anni. Finché nel 2021 interviene la Federazione internazionale dei lavoratori dei trasporti che riesce a far nominare un nuovo tutore e Mohammed può finalmente tornate a casa. La surreale storia della MV Aman rivela un mondo dove è facile restare in trappola perché l’armatore non riesce più a coprire i costi del viaggio o della manutenzione e opta per la via più «conveniente»: stop a pagamenti e contatti, nave e uomini lasciati al proprio destino.
Negli ultimi 20 anni sono state abbandonate in totale 9.925 persone su 703 navi mercantili e la somma degli stipendi non pagati ha raggiunto i 40 milioni di dollari. Con 25 abbandoni, l’Italia è quinta per casi registrati nei propri porti dopo Emirati Arabi Uniti (89), Spagna (45), Turchia (37) e Iran (35). Tra dispute pendenti e risolte, gli scali interessati sono Augusta (4 casi), Oristano (3), Cagliari, Ancona, Ravenna, Messina, Genova, Napoli, Venezia, Palermo, Porto Empedocle, Chioggia, Savona, Civitavecchia.
I marinai non possono scendere a terra perché non hanno il visto, perché non possono pagarsi il ritorno o perché temono di perdere qualsiasi diritto di reclamare le paghe dovute. Spesso confidano nella vendita all’asta della nave per recuperare il credito. Per le norme internazionali sono tecnicamente abbandonati dopo almeno due mesi di mancata assistenza e retribuzione.
Sulle navi le condizioni diventano presto insostenibili con generatori a secco, zero riscaldamento, carenza di cibo e acqua, nessuna assistenza sanitaria, rarissime comunicazioni con famiglie lontane rimaste senza fonti di sostentamento, e con il pericolo di finire alla deriva in caso di guasti e maltempo
Secondo l’ultimo rapporto della piattaforma marittima digitale RightShip i 103 nuovi casi del 2022 sono conseguenza del blocco delle catene di approvvigionamento e distribuzione sull’onda lunga del Covid e dell’esplosione dei prezzi, che hanno portato le compagnie alla bancarotta. Era già successo dopo la crisi finanziaria del 2008, ma per la ragione opposta: il crollo dei costi di noleggio. Durante la pandemia l’introduzione di nuovi controlli e restrizioni ha inoltre reso impossibile l’avvicendamento nei turni per oltre 300 mila marittimi commerciali, che a contratto scaduto si sono trovati bloccati in mare senza poter essere sostituiti. Dal 2017 sono aumentate le denunce presentate direttamente dai marinai grazie alla Convenzione internazionale sul lavoro marittimo che prevede un’assicurazione obbligatoria contro gli abbandoni: fino ad oggi sono 247 (92 solo per gli abbandoni del 2022) e in totale 3.657 i membri del personale di bordo che hanno richiesto il risarcimento per il salario non riscosso. In media i tempi di attesa per la risoluzione di ogni caso sono di 3,8 mesi e le somme dovute a ciascun marittimo arrivano a circa 11.464 dollari per 5,7 mesi di servizio. Il più delle volte le richieste di risarcimento non si traducono in un pagamento completo degli stipendi non percepiti, perché i marinai si accordano per ricevere almeno un pagamento parziale.
Allo scoppio della guerra in Ucraina sono rimaste «prigioniere» nei porti del Mar Nero e del Mar d’Azov circa duemila persone su 94 navi, scese oggi a 331 per 62 imbarcazioni escluse dall’accordo sul transito dei cereali siglato lo scorso luglio a Istanbul: a febbraio la Camera internazionale degli armatori (International Chamber of Shipping-ICS, che rappresenta circa il 90% della flotta mondiale), insieme a trenta associazioni del settore inclusa l’italiana Confitarma, ha chiesto l’intervento delle Nazioni Unite con una lettera aperta al segretario generale António Guterres. L’accordo di Istanbul ha consentito alle sole navi per il trasporto del grano l’uscita da 3 porti su 18, lasciando le altre in acque infestate da mine. Per sbloccare la situazione occorre il coinvolgimento diplomatico della Russia.
«Nei porti del Mar Nero non ci sono navi italiane perché già dal marzo 2022 furono invitate a lasciare le zone economiche esclusive di Ucraina e Russia – spiega Luca Sisto, direttore generale Confitarma e membro del Comitato nazionale Welfare della Gente di Mare –, decisione responsabile con inevitabili ricadute commerciali, ma non condivisa da tutti gli armatori europei. Per quanto riguarda invece i nostri porti, negli anni le reti di soccorso hanno fornito ai marittimi supporto medico, schede sim, abiti e cibo. È la bellissima solidarietà della gente di mare». La Camera internazionale degli armatori calcola che il trasporto via mare garantisca solo all’Unione europea l’80% dell’import-export per volume, il 50% per valore. Numeri dietro i quali ci sono storie come quelle appena descritte, dove gli automatismi burocratici incrociano negligenze criminali e crisi economiche, politiche, militari. E a pagarne il prezzo sono, come sempre, gli ultimi ingranaggi della catena.