Adriano Olivetti diceva che «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso». In quegli anni di boom economico per il nostro Paese, l’amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta guadagnava 12 volte un operaio. L’ultimo stipendio di Sergio Marchionne a Fca nel 2017 fu 9,7 milioni di euro: 437 volte quello di un metalmeccanico. Stiamo parlando cifre lorde, dove la remunerazione di un top manager è composta da quota fissa e quota variabile, in parte legata ai risultati, alle quali si aggiungono spesso le stock option e la buonuscita quando se ne va. Decisioni che vengono prese dal Cda o dall’assemblea dei soci all’atto della nomina.
Nel 1980 gli amministratori delegati più pagati prendevano 45 volte un loro dipendente. Nel 2008 la media delle remunerazioni dei primi 10 top manager italiani era di 6,41 milioni di euro, 416 volte lo stipendio medio annuo di un operaio; nel 2020 è stata di 9,59 milioni, cioè 649 volte. Nella traccia indicata da Olivetti si colloca invece la media degli stipendi dei dirigenti intermedi. Nel 2008 ci volevano 8,3 stipendi di un operaio per fare quello di un dirigente medio, nel 2020 si è passati a 10. Mentre in questi dodici anni lo stipendio medio di un operaio è sceso del 4%.
Eppure non sempre c’è correlazione tra risultati e stipendi. Nel 2021 Andrea Orcel, ad di Unicredit, ha ricevuto una remunerazione di 7,5 milioni di euro: 2,5 milioni di euro di quota fissa e 5 milioni di quota variabile, integralmente incassata, agganciata per il 70% a target finanziari e per il 30% alle priorità strategiche, a partire dalla sostenibilità. UniCredit ha confermato la remunerazione di Orcel, giunto in Italia per la fusione con Mps mai avvenuta, anche per il 2022. Questo nonostante la stessa UniCredit abbia calcolato un’esposizione passiva delle sue attività russe per 5,2 miliardi. Nel 2021 Luigi Gubitosi lascia Tim, e l’azienda che sta perdendo 8,7 miliardi gli riconosce una buonuscita da 6,9 milioni. Poca cosa rispetto ai 25 milioni del suo predecessore Flavio Cattaneo per aver amministrato per poco più di un anno, o i 40,4 milioni ad Alessandro Profumo per i 12 anni in Unicredit. Dopo la sua uscita sono emerse perdite nette pari a 9,2 miliardi. Ma non tutti sono uguali. Vincenzo Maranghi, per 15 anni amministratore delegato e direttore generale di Mediobanca, lascia il comando nel 2003 rinunciando all’indennità di uscita. Considerava gli incentivi finanziari amorali. Infatti non ha mai voluto stock option perché «quando mi faccio la barba prima di entrare in banca – diceva – non posso neanche per un istante pensare che durante quella giornata io possa prendere una decisione che possa sembrare nel mio interesse e non in quello della banca».
In Banca Etica i supermanager non vengono premiati con stipendi di platino. La componente variabile non può superare il 15% della retribuzione annua lorda fissa e il rapporto tra lo stipendio più basso e quello più alto è al massimo di sei volte. Nel 2020 il direttore generale e la presidente hanno percepito, rispettivamente, un compenso totale di 157.368,48 e 74.481,56 euro. L’esercizio 2021 si è chiuso con l’utile in forte crescita rispetto al 2020: 16,7 milioni di euro, quasi triplicato rispetto al 2020. Stessa politica per le altre 13 banche etiche europee dove il rapporto tra la remunerazione più bassa e quella più alta arriva al massimo a 12,6 volte.
Negli Stati Uniti la differenza salariale la chiamano «pay gap» e, dal 2018, per tutte le aziende quotate è obbligatorio renderla nota alla Sec, la Consob americana. Lo prevede una legge promulgata nel 2010 sull’onda della crisi finanziaria del 2008 e più volte rivista. Dovrebbe servire a promuovere la stabilità finanziaria degli Stati Uniti, proteggere i contribuenti e i consumatori, migliorando la trasparenza del sistema, ma non ha inciso di una virgola sulla disparità salariale. Secondo l’America Federation of Labor nel 2020, ultimo dato disponibile, la retribuzione media degli amministratori delegati delle aziende quotate allo S&P 500 è stata di 299 volte superiore a quella mediana dei lavoratori. Con delle eccezioni: Kevin Clark, Ceo della società di componenti automobilistici Aptiv PLC, con i suoi 31,2 milioni di dollari ha guadagnato 5.294 volte lo stipendio mediano. David Goeckeler (Western Digital Corporation): 35,7 milioni di dollari, 4.934 volte quello mediano. Sonia Syngal (The Gap): 21,9 milioni di dollari, con un divario di 3.113. Nella top ten troviamo anche Christopher Nassetta del Gruppo Hilton (55,9 milioni di dollari, 1.953 di divario), John Donahoe II della Nike (55,5 milioni di dollari, 1.935 di divario) e James Quincey della Coca Cola (18,4 milioni, 1.621 volte). Ma cosa succede per esempio ad Elon Musk? Il suo stipendio annuo ufficiale è di appena 23.760 dollari, addirittura più basso dello stipendio mediano del suo gruppo. Però il patron di Tesla e SpaceX è l’uomo più ricco del pianeta. Nel 2021 ha chiuso l’anno al primo posto sia del Bloomberg Billionaires Index, sia del ranking Billionaires di Forbes, che gli accreditano una ricchezza di oltre 270 miliardi di dollari, 117 in più rispetto al 2020. Eppure al comparire della crisi economica globale, schiacciata da inflazione e incertezze, non ha esitato ad annunciare 10 mila licenziamenti (il 10% di Tesla).
Lo studio dell’Economic Policy Institute mostra che dal 1978 al 2018 le remunerazioni dei Ceo sono cresciute del 940% e quelle dei manager del 339,2%, contro l’11,9% del salario del lavoratore tipo. Una escalation che ha ampliato il divario tra i redditi del 10% della popolazione più ricca rispetto all’altro 90%.