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Chips Act, il piano Ue sui processori: 43 miliardi per l’autosufficienza (entro il 2030)

di Fabio Savelli

Chips Act, il piano Ue sui processori: 43 miliardi per l'autosufficienza (entro il 2030)

L’obiettivo? L’auto-sufficienza tecnologica. Con un maxi-piano europeo di investimenti fino a 43 miliardi. Ecco le ragioni del «Chips Act» dell’Unione europea presentato da Ursula von der Leyen (qui tuttii dettagli). C’è da ridurre un disallineamento pesante tra domanda (e offerta) di semiconduttori che vede l’Europa dipendente dall’Asia. Sui microchip — necessari per l’elettronica, l’automazione industriale, l’automotive, l’intelligenza artificiale, gli apparati tlc, il cloud — consumiamo il 18% della domanda globale producendo appena l’8%. Potremmo d’altronde definire l’anno appena concluso come quello della guerra dei chip.

A Taiwan si concentrano le fonderie che producono conto-terzi i microprocessori disegnati altrove. Una crisi globale amplificata dal progresso tecnologico trainato dal 5G che si serve di chip per i nuovi apparati di telecomunicazione. Il vizio originario sta tutto nel deflagrare della pandemia in cui le proiezioni di vendite da parte delle case automobilistiche erano più prudenziali rispetto a ciò che poi si è effettivamente verificato sul mercato. Ciò ha finito per spostare i volumi e la domanda di semiconduttori, che storicamente incide sull’auto soltanto per il 10% del fatturato. I produttori usano la formula del «just in time». Si rinegozia costantemente col fornitore il contratto in modo da avere sempre il «magazzino» a zero per ridurre al minimo i costi di logistica. Si tratta così da due anni di riallocare l’offerta di chip anche perché per costruire, nel mentre, nuovi impianti di semiconduttori, servono anche 12- 18 mesi.

Spiega Claudio Campanini, al timone della società di consulenza strategica Kearney Italia, che «l’Europa prova così a colmare un grosso ritardo accumulato dai primi anni ‘90 quando i chip servivano solo per l’elettronica. L’industria preferì concentrarsi sul design più che sulla produzione». In questi anni Cina e sud-est asiatico (in testa Taiwan) hanno sussidiato questa filiera creando un ecosistema che solo l’americana Intel è in grado di reggere. «Manca un vero campione europeo ma Intel ha già annunciato che aprirà una mega-fabbrica nel Vecchio Continente», dice Campanini, sfruttando anche queste risorse. Dove? Ora è la domanda. La Germania sembra in testa, l’Italia può attrarre l’investimento? Si è parlato di un possibile interesse per Mirafiori anche per sfruttare i volumi di Stellantis, ma il governo sta sensibilizzando gli americani sul tema?

Sul piano tecnologico, è un’occasione per l’Europa per tornare alla frontiera tecnologica in un settore in cui ha perso terreno: gli investimenti in nuove fabbriche nel Continente nel 2020 sono appena il 3% del totale mondiale (secondo il centro studi Bruegel) e, dalla tedesca Infineon all’italo-francese STMicroelectronics, i gruppi europei presidiano nicchie importanti ma lontane dai modelli più avanzati. Non è un caso però che l’americana Tesla si sia costruita la propria fabbrica di semiconduttori in Europa per alimentare le sue auto elettriche. Dove però? In Germania. Un’avvisaglia.

Per questo la foundry europea di Intel, la fabbrica per la produzione anche di transistor delle prossime generazioni, presumibilmente andrà in Germania e verrebbe collocata con ogni probabilità nell’area di Dresda, ha scritto Federico Fubini sul Corriere. Vi si trova già il più grande distretto europeo nell’industria dei semiconduttori: lì producono la tedesca Infineon e l’americana GlobalFoundries, quest’ultima controllata dal fondo sovrano saudita e potenzialmente oggetto delle mire della stessa Intel. A Catania invece, a ridosso del distretto tecnologico di StMicroelectronics, potrebbe arrivare ora però un investimento di vari miliardi di euro (ancora da quantificare). A titolo di confronto, l’intero piano italiano del Recovery prevede per i chip nel Paese, sempre a Catania, appena 750 milioni.

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